Per la prima volta il Castello di Rivoli dedica una grande mostra non a un artista ma al critico e curatore Achille Bonito Oliva, in arte A.B.O.

Rivoli celebra Achille Bonito Oliva: per la prima volta il Castello di Rivoli dedica una grande mostra non a un artista ma al critico e curatore Achille Bonito Oliva, in arte Abo. «Critici si nasce, artisti si diventa e pubblico si muore», finisce Achille Bonito Oliva puntando il dito su uno dei quotidianisti presenti all’anteprima stampa di A.B.O. Theatron, L’arte o la vita, la mostra che Rivoli gli dedica fino al 9 gennaio 2022. Del progetto Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria, rispettivamente direttore e capo curatore delle collezioni al Castello, ragionavano da tempo.

«Si tratta della seconda volta, dopo l’omaggio ad Harald Szeemann del 2019 in collaborazione con il Getty Institute, e rappresenta un unicum a livello mondiale», sottolinea il direttore. «Mai prima d’ora un museo di arte contemporanea aveva organizzato mostre con protagonisti non artisti ma critici d’arte». Una rivoluzione copernicana che apre una stagione tutta nuova del museo sotto la presidenza di Francesca Lavazza che va nella direzione di uno slow museum: meno visitatori ma che spendono più tempo nella struttura, tra il Castello, la caffetteria-ristorante che domina la vallata e la sorprendente collezione Cerruti.

A differenza dell’omaggio a Szeemann, non si tratta di un tributo postumo, Achille Bonito Oliva è parte dell’allestimento affidato ad Andrea Viliani ex direttore del Madre di Napoli e per questo forse entrato in sintonia col critico «partenopeo e parte romano», che ha anche donato il suo archivio personale al Crri-Centro di Ricerca Castello di Rivoli, diretto dallo stesso Viliani.
A.B.O. è l’acronimo con cui il critico inizia a firmarsi nei primi anni 70
Il titolo è il primo contributo di Achille Bonito Oliva: A.B.O. è l’acronimo con cui inizia a firmarsi nei primi anni 70, diventando il personaggio ego-riferito che da allora sempre sarà. Non per vanità, ma per la sua concezione della critica come autocritica antagonista all’autore («l’artista è creatore, il critico è creativo»). Theatron non si riferisce alla teatralità, ma al senso profondo dell’etimologia greca che richiama il vedere, osservare, e ha la stessa radice di teorizzare, ossia il compito del critico, di provare a capire e non dare mai per scontato, perché non può esistere pregiudizio nell’arte.

L’esposizione è un excursus della carriera dell’inventore della Transavanguardia che non segue un ordine cronologico ma, proprio come il suo concetto di avanguardia liquida, spazia e gioca con i limiti. È chiaro fin dall’esordio con la prima sala dove campeggiano le opere dei cinque grandi protagonisti della corrente antagonista dell’Arte Povera, con cui ancora oggi si contende il primato e i record d’asta. Entrambi i movimenti hanno un valore acquisito dell’arte internazionale che non presenta rischi. Ma i prezzi della Transavanguardia al momento sono più favorevoli con un margine più alto di ripresa del mercato e quindi di una maggior margine di rivalutazione.
Come l’Arte Povera con cui si contende ancora oggi il primato e i record d’asta, è un ottimo investimento, ma la Transavanguardia ha margini più alti di rivalutazione
Le opere di Francesco Clemente, Sandro Chia, Enzo Cucchi, Nicola De Maria e Mimmo Paladino interagiscono così con un dipinto di anonimo fiorentino del ’500, lo spettatore ideale, obliquo e manierista a richiamare L’ideologia del traditore, dal saggio del 1976, e con un autoritratto di Giorgio de Chirico e il grande Senza Titolo di Gino De Dominicis, gli autori delle ultime due mostre allestite dal critico.

Dalla seconda sala il percorso pare invece seguire lo svolgersi cronologico della carriera di Bonito Oliva, mostre dirompenti come Amore mio e Contemporanea, allestita nei primi anni 70 per la prima volta in uno spazio altro rispetto al dogma museale: un parcheggio, il grande garage di Villa Borghese che ha ospitato grandi artisti internazionali come Christo e Jeanne-Claude e le star della Pop Art come Rauschenberg per la prima volta a Roma. E ancora Vitalità del negativo con il potente manifesto del David virato in negativo e la mitica Biennale di Venezia del 1993 con la partecipazione di star come Yoko Ono e Damien Hirst.

Rivoli celebra Achille Bonito Oliva, ma l’omaggio è uno spaccato di mezzo secolo di storia dell’arte e del costume rievocato attraverso opere spettacolari come le labbra rosse di Pino Pascali e le grandi tele di Balla di Boetti, di Nanni Balestrini e Marcel Duchamp, punto cardinale di A.B.O. insieme a Pablo Picasso. Ma soprattutto con l’enorme messe di materiale d’archivio: cataloghi e corrispondenza (fulminante lo scambio via telegramma con Jannis Kounellis), manifesti e foto degli allestimenti.

Bonito Oliva è stato il primo a capire l’importanza di documentazione e comunicazione nel mondo dell’arte. Lo dimostrano gli scattati di Ugo Mulas e Mimmo Jodice e, oggi, le divise creata da Gucci per il personale di sala del museo, gli «angeli custodi della mostra» come ama definirli Alessandro Michele che ha già fatto un’operazione simile facendo sfilare le maestranze della maison in passerella.

Ma è la sezione finale della mostra che più somiglia ad A.B.O., quella allestita grazie al contributo di Paola Marino con le sue RaiTeche, un insieme di video che girano a nastro creando una voluta cacofonia. Frutto di un lavoro certosino di recupero delle sue apparizioni e incursioni in tv ma anche nei rotocalchi e fumetti. Sono queste le stanze che più lo rappresentano, transavanguardia applicata, trans-genere nel senso pieno del termine.

Qui tutto può coesistere aldilà di confini e pregiudizi: dalle foto nudo accanto a Moana Pozzi vestita di tutto punto ai fumetti di Martin Myster in cui appare come l’incarnazione del critico, dalle lezioni di storia dell’arte ai bambini alla chiacchierata telefonica in cui parla di estetica col divo del brit pop Harry Styles. Si esce dal Castello con la netta sensazione che alla fine Achille Bonito Oliva è riuscito a realizzare il suo sogno: come racconta nel bel video-documentario girato da Irene Dionisio, breve, intenso e infarcito dei suoi fulminanti Aborismi: «Alla domanda che cosa vuoi fare da grande, fin da piccolo rispondevo: voglio fare il bambino».