Lavori in corso. Il passato aiuta a capire il presente

di Claudio Costa - illustrazione di Chris Burke

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Il passato aiuta a capire il presente. Per questo le ricerche degli antropologi incuriosiscono anche gli economisti. Con il rischio di tornare al mito del Buon Selvaggio…

Il libro Sapiens di Yuval Harari, 15 milioni di copie, sta sul comodino di Bill Gates (versione e-book, ovviamente…) quale fonte di meditazione permanente. Così come il recentissimo How the West rules, di Ian Morris, è oggetto di dibattiti fra economisti e politici dell’ultima generazione.

Perché mai tanto interesse per una saggistica che esplora la complessa avventura dell’uomo con un occhio all’antropologia e un altro alla storia, dedicando lunghissimi capitoli agli antenati del Neolitico e persino agli ominidi che li hanno preceduti? Semplice: perché il passato, anche così lontano, aiuta a capire il presente.

Piaccia o no, l’evoluzione ha conservato e trascinato sino a oggi parecchie caratteristiche (psicologiche, biologiche, culturali) di quei bisnonni primordiali.

Ed ecco perché un recentissimo librone di 460 pagine, Work: a history of how we spend our time, ha attirato la curiosità dell’autorevole ( e un po’ sussiegoso…) Economist.
L’autore, James Suzman, antropologo, docente all’Università di Edimburgo, ha condotto lunghe ricerche presso una tribù sudafricana che sino a pochi anni fa praticava ancora l’attività di cacciatori-raccoglitori precedente a quella di coltivatori-allevatori (la cosiddetta Rivoluzione Agricola iniziata circa 10mila anni fa).

Secondo Suzman, il passaggio dalla fase di caccia, pesca e raccolta di vegetali spontanei a quella di agricoltura e pastorizia è stato catastrofico. Le tribù nomadi che vagavano accontentandosi dei doni della natura, sostiene il professore, lavoravano sì e no una dozzina di ore a settimana, dividevano il cibo fra loro ed erano in perfetta armonia con l’ambiente.

L’agricoltura e l’allevamento di animali (svolta epocale da cui nacquero la proprietà privata, il villaggio, la città, lo stato e così via, insomma il primo grandissimo balzo in avanti verso la civiltà) si sarebbero trasformati in una colossale trappola autolesionista: da allora, prigioniero di nuovi problemi creati da società sempre più complesse, l’homo sapiens avrebbe dovuto lavorare sempre più a lungo e in modo sempre meno soddisfacente per il moltiplicarsi di bisogni e desideri.

Ecco risorta la vecchia solfa dell’autoesilio da un qualche Giardino dell’Eden o Paradiso Perduto, la fine di una leggendaria Età dell’Oro in cui tutte le creature (salvo quelle cacciate e pescate…) erano felici e contente.

Meglio ancora: rispunta il mito del Buon Selvaggio, innocente e felice, come l’aveva immaginato Jean-Jacques Rousseau nell’Émile a metà 700 (e definitivamente smantellato da Claude Lévi-Strauss in Tristi Tropici a metà 900…). Sì, può darsi che il selvaggio lavorasse solo 12 ore a settimana, ma non era né buono né felice: si scannava coi suoi simili per i territori di caccia e pesca, pativa la fame nella stagione fredda e moriva a meno di trent’anni. Certo nessuno nega che la civiltà comporti disagi e problemi (che però è stata finora in grado di risolvere). Ma parafrasando un vecchio detto sul denaro: se il progresso non dà la felicità, figuriamoci l’arretratezza…

gentleman editoraile aprile 24

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