Reportage. Tangeri Express

di Enrico Dal Buono

Crocevia di universi e culture,  oggi buen retiro degli europei, Tangeri è in continua trasformazione

Cap Spartel (qui sopra), a 15 chilometri dal centro di Tangeri, è la sponda meridionale della fine del mondo antico. Segna il confine inquieto tra Oceano Atlantico, di un cobalto abissale, e Mar Mediterraneo, celeste e schiumoso.

Il suo faro color crema decora il rovescio delle banconote da 200 dirham, che sul dritto portano un ritratto del re Mohammed VI. Specularmente, sul rovescio del faro tridimensionale, è appiccicata una gigantografia dello stesso Mohammed VI, di guardia al continente africano.

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Poco più a sud si apre la grotta di Ercole, con la volta marezzata da antichi scalpelli e lo sbocco finale che dall’antro oscuro, in una giornata di burrasca, sembra la toppa a forma di Africa da cui spiare il mare che ancora bracca l’Oceano sul loro letto disfatto.

Su una delle terrazze del Cafè Hafa di Tangeri (sotto), già frequentato dagli scrittori beat e dai Rolling Stones, un signore anziano in djellaba marrone fuma dalla sua sebsi, una pipa stretta e sottile. Tra una boccata e l’altra parla in arabo classico, dal suono profetico e altalenante.

«Quale cosa è scritta, ma nessuno può leggere?», chiede. Risposta: «Il destino».

Ecco, data la sua collocazione geografica, il destino di Tangeri non era così impossibile da decifrare. Ventoso crocevia di universi, porta di argilla rossa e calcare giallastro tra mari e continenti, è stata fenicia, cartaginese, romana, vandala, bizantina, araba, portoghese, spagnola, britannica.

Dal 1923 fino all’indipendenza del Marocco, nel 1956, fu città internazionale, con neutralità politica e militare nonché totale libertà d’impresa.

La sua storia vive ancora oggi nella Medina, tutta volti e chiaroscuri, dove si ascoltano «s» spagnole, «r» francesi, gutturali arabe, dove si incrociano occhi marroni mediorientali e latini, occhi azzurri berberi e vandali. I viottoli, che ricordano gli arzigogoli dei portoni intagliati e i fregi dei portali, curvano, si ritorcono e spesso riconducono al punto di partenza.

Lo stesso percorso della gastronomia tangerina. «La nostra cucina è contaminata da molte tradizioni. Per esempio, a Tangeri si cucina la paella spagnola», dice Salah Chakor, manager di Palais Zahia (sotto), ristorante che propone specialità locali (non la paella), in un riad ben ristrutturato, già sede della prima banca marocchina. Perché la paella nasce come piatto dei marinai arabi, preparato con avanzi e riso, si accasa in Spagna, si trasforma, e poi torna al punto di partenza.

«Mangiare non si riduce a un atto biologico, ma è civiltà, e spesso è incontro tra civiltà», dice Chakor, che è anche presidente della Fondation Académie Marocaine de la Gastronomie. Ed è incontro tra individui: a Le saveur de poisson, a due passi dalla Medina, servono il pesce in scodelle di terracotta da cui si servono con posate di legno, come da tradizione, tutti quanti i commensali.

Il suq, poi, è una festa di spezie e sapori. Si susseguono muri blu scrostati, montagne rosse di piccoli gamberetti e tonni d’argento arenati tra le maioliche, frutti arlecchino, cesti di polveri policrome. Il suq è la Creazione a portata di cunicolo.

Man mano che si sale verso la casba di mura calcaree, i rumori e gli odori si diradano. A volte i tangerini se ne stanno appoggiati alle pareti, i colli inclinati, le schiene rilassate, le mani in tasca. È gente che sa aspettare, l’incarnazione dell’espressione «Inshallah», se Dio vuole.

E in effetti Tangeri, senza mai muoversi, ha incontrato geni come William Burroughs, avventurieri come il giornalista del Times Walter Burton Harris, la cui villa ospita tutt’oggi una collezione d’arte contemporanea, e poi spie, sognatori, vagabondi.

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Umberto Pasti, scrittore, paesaggista e proprietario di una delle case più belle di Tangeri, Tebarak Allah. 

Umberto Pasti, scrittore, botanico e paesaggista, c’è capitato così: «Quarant’anni fa, a Marrakech, ho litigato con i miei compagni di viaggio. Ho chiesto qual era la città del Marocco più distante da lì, e sono ripartito. Finché non mi sono ritrovato davanti a centinaia di ettari di iris selvatici in fiore. Ero capitato a Tangeri».

Anche se il suo capolavoro vegetale, il giardino di Rohuna, considerato uno dei giardini più belli dell’intera Africa, sorge in un piccolo villaggio, pure questo di Tangeri dà rifugio a oltre 2mila specie di piante, tanto che pare una giungla in abiti da festa.

All’epoca del primo incontro con Pasti, Tangeri contava appena 80mila abitanti. Oggi sono più di un milione.

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Tebarak Allah, la villa del paesaggista e scrittore Umberto Pasti.

«Il re vuole farne la vetrina aperta sull’Europa. Del resto, il cambiamento è la costante di questa città». La casa è arredata con manufatti nordafricani prodotti dal neolitico al ’900. Nella veranda pende un teschio di balena.

«Le tribù autoctone arabofone, gli Jbala, hanno creato una ricchissima tradizione culturale, soprattutto mistica. La metà dei tangerini sono Jbala inurbati nei secoli», dice Pasti. E spiega con un aneddoto il suo amore per questa terra.

«Ieri ho incontrato una signora che non conoscevo e che portava a fatica una grossa zucca. Si era svegliata nel cuore della notte pensando al suo orto fuori città, dove non andava da tempo, e si era subito incamminata per vedere se quell’orto le avesse regalato una zucca. Quindi, in ore di autostop e taxi collettivi, era arrivata nell’orticello e l’aveva trovata».

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Un interno di Tebarak Allah, la villa di Umberto Pasti.

«Poi era tornata per preparare una zuppa di zucca al marito, che la adora. E insomma, questa estranea, lì per la strada, mi invita a cena, mi dice che la zuppa sarebbe stata pronta attorno alle 2 o 3 di notte, che per trovare casa sua dovevo solo andare in un certo quartiere e chiedere di lei. Ecco, degli abitanti di questo posto mi piace il talento di deformare lo spazio-tempo, di deviare la traiettoria dei giorni».

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Nicolò Castellini Baldissera ritratto a Casa Tosca.

Un altro italiano, l’interior designer Nicolò Castellini Baldissera, discendente dell’architetto Piero Portaluppi e di Giacomo Puccini, è arrivato per la prima volta a Tangeriqui nel 2009 con dei clienti francesi. E oggi ha scelto Tangeri come buen retiro. «Vivevo tra Londra e Parigi, volevo cambiare il mio stile di vita, trovare un ritiro esotico e appartato a poche ore di volo», racconta.

Il destino l’ha portato a Tangeri. Così ha vissuto sei anni nella medina, finché non l’ha percepita come troppo rumorosa. «Per caso mi sono imbattuto in quest’altro edificio, che ha ben poco di marocchino. Mi ha subito ricordato una casa di via XX Settembre a Milano, e così ho deciso di crearmi un’oasi borghese in una terra esotica».

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Quest’oasi borghese, con muri colorati di verde e di ottanio, lampadari di corna di cervo abbracciate e letti a baldacchino, è oggi Casa Tosca, residenza di Castellini Baldissera, che prende il nome dall’opera lirica del suo antenato e, contemporaneamente, lo dà alla sua linea di mobili in rattan prodotti tra Milano e Tangeri.

«In questi 13 anni Tangeri si è riempita di impalcature per le ristrutturazioni, di strade, rotonde, aiuole quasi ginevrine. Un TGV la collega a Casablanca in due ore e un quarto, il Tanger Med è il più grande porto del Nord Africa, qui c’è la più grossa fabbrica di Renault del mondo. Tangeri è la scommessa del re per il secolo».

La guida Abdellghafor Zanguoh di Yalla Tours Tangier racconta che da ragazzino giocava a calcio nella piazzetta davanti a Casa Tosca. Un terrazzo della stessa casa, spiega, si affaccia sul tetto di rame inverdito dall’ossidazione dell’ex consolato italiano, già dimora di Giuseppe Garibaldi. Tutto ciò, all’interno del quartiere ebraico.

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«Ma ci sono innumerevoli esempi della sedimentazione culturale della città», spiega Abdellghafor. «Tutt’oggi qui esistono zone franche internazionali e chiese di ogni confessione; i minareti ottagonali prendono la loro forma dallo stile andaluso; il tè alla menta servito in ogni bar è un retaggio britannico; fuori città stanno costruendo Tangier Tech, una smart city che ospiterà anche 200 imprese cinesi; nella medina di Tetouan le insegne delle attività commerciali sono scritte in spagnolo».

L’atmosfera cosmopolita si distende lungo la corniche, verso est, e si coagula in hotel internazionali, come il Farah: al termine del suo ampio salone, una vetrata, riempita dall’azzurro del Mediterraneo, fa da sfondo a un pianoforte a coda bianco.

Dietro, a sud, risplende una luce potente e infuocata: penetra fra le nuvole oceaniche e ne scolpisce le ombre con contorni netti, cristallini, sui pendii del Rif che bordano i confini del vecchio mondo.

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